«Ma guarda te: l’hanno appena aperto e già c’hanno imbrattato il muro!»
La lunga linea, di un marroncino sospetto, attraversa una parte dell’ampia parete, di bianco immacolata, quasi a deturpare un bel volto, sfigurato da una rapida e astiosa rasoiata.
«Linea di terra», legge a voce alta, la mia dolce metà, alzando con compatimento gli occhi dagli occhialini, scivolati sulla punta del nasino «è un’opera d’arte moderna».
«Mamma mia…e quando la devono traslocare, che fanno: abbattono l’intera parete?»
La moglie comincia a prendere le distanze.
«Guarda. La donna delle pulizie ha lasciato le spugnette attaccate al muro!»
La compagna abbozza, incassa con rassegnazione il fatto che il suo maritino non capisce nulla di arte e che, ormai trascorso il tempo di legge, non può più invocare il diritto di recesso e se lo deve tenere, così com’è.
«Bisognerebbe avvisare il personale della mostra: c’è una lampada al neon che sta per saltare» dico io, passando accanto ad un treno di luci, che si accendono e spengono, or questa, ora quella.
La moglie ormai ha preso le distanze e guarda un ghirigoro sull’altra parete, quasi con il naso incollato e un rossore in espansione sulle gote.
Facce rabbuiate e preoccupate mi osservano: forse anche loro mi danno ragione, sui quei bulbi in procinto di fulminarsi.
«Cristina, vieni qua: c’è un enorme appendino per gli abiti, che pare lo stenditoio a torre della Foppapedretti!»
La femmina sembra ingobbirsi, rattrappirsi e scomparire, tanto che rapidamente scantona dietro una delle pareti divisorie, mentre uno dei visitatori mi osserva con disappunto.
«Croce», mi apostrofa con voce schioccante come uno schiaffo, indicando, con veemenza e l’indice vibrante, il cartellino alla base dell’incrocio tubolare.
«Madonna benedetta! Sti romani erano geniali proprio: ai tempi crocefiggevano anche a grappolo!»
La mogliettina intanto si infilata nei bagni, e sento che chiude la porta a più mandate, cercando di forzarne altre, oltre alle due classiche.
Bello; bello davvero il nuovo Museo del Novecento, nato sulle ceneri del vecchio e ormai sorpassato Arengario, affacciato sulla bella piazza, sotto le guglie del Duomo della metropoli meneghina.
Ci si entra e si impegna una comoda e funzionale salita, attorcigliata come le volute serpentiformi del condotto uditivo: al vertice, saloni su più piani, ognuno con arte a tema, per tele, marmi e ammennicoli vari.
Me ne stavo beatamente seduto ed eccomi circondare da un certo numero di persone, che guardavano con fare stranito.
«Signore…ehm…scusi: lei si è seduto su una scultura», mi dice una graziosa signorina, con tanto di targhetta e divisa dei curatori di quello scrigno di cultura.
«Si alzi, prego: si è messo sulla statua dell’Assetato».
Solo allora mi accorgo che la leggera inclinazione e la curvatura del sasso non è anatomico schienale di seduta, ma l’abbozzo di un corpo chino su un’immaginaria pozza d’acqua.
Con non poco imbarazzo, cerco di darmi un tono e vedo di confondermi tra i tanti, che menano impressione di essere acculturati, tanto si avvicinano alle opere con cipiglio pensoso e indagatore, rughe profonde e corrugate, proprie dei grandi pensatori intenti a speculare su massimi sistemi.
"Ah, questa volta mi rifaccio", penso, mentre mi rivolgo a una robusta cariatide di mezza età, sprofondata in un’elegante sedia con la curiosa caratteristica di avere una specie di cintura imbottita e appoggini perri gomiti, di soffice gommapiuma.
«Signora, le conviene alzarsi, che qui sono permalosi e cazziano pesantemente quelli che si appoggiano alle sculture!»
Quella allora si drizza e punta il suo con il mio, di naso:
«Ehi, bello, smamma, che questa sedia l’ho vista prima io!»
Sgambetto avvilito e migro in una stanzetta, un pochino più appartata.
Su un piccolo treppiede, un palloncino: "Fiato d’artista"-
L’apoteosi della Musa, l’ascesa al Nirvana, il culmine dell’espressione artistica: riecco, il Pierotto Manzoni, sublime mantice dei suoi"Corpi d’Aria", che il vero colpo da maestro lo fece in quel lontano 12 agosto del lontano 1961;
in occasione di una mostra alla Galleria Pescetto di Albisola Marina, presentò il suo capolavoro: per la prima volta in pubblico, le scatolette di" Merda d’artista", ovvero, novanta barattolini - al modico prezzo pari al corrente, dell’oro - 30 grammi di conserva al naturale - cremosa e inscatolata calda e fumante, nel mese di maggio,quello odoroso di erbe e fiori.
Di quanti allora fecero acquisto, nessuno a oggi ho visto portarne vanto.
Ah, ignoranti e zotici personaggi, incapaci di apprezzare arte moderna, che guarda avanti, al futuro quando, passi per l’aria, anche la cacca, rigorosamente d’autore, sarà poesia, degna delle Muse e sulla tavola della parte più acculturata del paese, quella che il caro Baffin D’Alema vide cadere vittima alle urne del branco Berlusconiano, della quantità che ebbe ragione della qualità.
«Cristina, andiamo via, che io c’ho metà sangue di contadini e l’altra di montanari e tanto, su questo piano, mi pare una gran presa per quello che il Manzoni Piero usò per spennellare linee di terra e materia d’autore!»
Percorriamo i corridoi con la mia femmina che si cala il cappello di lana sugli occhi, la sciarpa alla radice del naso e gli occhiali da sole tolti solo all’aperto, lontano da sguardi accusatori.
Apro la pagina del giornale:
"Bersani Fini e Di Pietro vittime del mercato delle vacche".
Oh, finalmente;
casa, casa mia: per piccina che tu sia, sei sempre casa mia!
Io, secondo me...12.12.2010