martedì 12 febbraio 2008

Sorridi

La fotografia è bella, non c’è che dire;
divisa in due: sulla metà superiore, con sfondo di cielo che cangia dal turchese al blu, placide figure di soldati sembrano sapientemente incollate, disposti su più piani, a dare profondità;
la sensazione è simile al vedere placida raccolta di proprie masserizie, come i contadini che si apprestano al ritorno dopo un’estenuante e onesta giornata di lavoro.
Di sotto, una piccola salita di sabbia e sassi passa dal giallognolo all’ocra.
Sembra quasi costruita, quell’immagine, che il fotografo pare abbia invitato alla posa prima dello scatto, sennonché il ghigno in primo piano non è di uno che ha mostrato il fulgore della dentiera al classico «Guarda qui e sorridi».
Il cranio e bianchiccio e spolpato per intero;
le braccia con i gomiti piegati in avanti sono a mostrare mani artigliate in una presa disperata, quasi a voler abbrancare l’anima, che da quel corpo è poi sfuggita;
fa impressione vedere che, i pochi brandelli di carne, sono sulle mani, quasi fossero dei guanti, logori e frusti, ma decisi a divenir brandelli il più tardi possibile.
Anche qui, i resti disposti su leggero piano inclinato creano sensazione di profondità, ma è quella della fossa e non di scatto.
Quello, come altri attorno a far compagnia e da contorno, come insalata attorno alla bistecca...con osso, sono morti di un dio minore.
Tutto è a denunciare l’ennesimo attacco dei Janjaweed nel Darfur con tre città bombardate, duecento morti e dodicimila nuovi profughi.
L’ordine degli attori, la geometria perfetta formata nel rettangolo di carta di forme e colori, linee e curve, sublimano una compostezza che da pudore e dignità anche a scompagnate ossa, quasi a dimenticare che la guerra non si mette in posa, ma è il mosso, il caotico fuggir di piccioni che dà "vita" alla pellicola.
Se fosse un quadro, il tema non potrebbe essere che uno: natura morta.
Poi fissi le orbite vuote, pian piano realizzi, capisci che quello era uno come te, un poveretto che si è trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato;
una povera creatura, che un seminatore maldestro ha sparpagliato su terra arida, che il seme lo avvolge, stringe e soffoca, schiacciandole tra zolle diventate tenaglie, mosse e strette da un sole cocente che ha prosciugato la pietà dell’acqua.
Capita di invocare «Dio mio, aiutami», spesso un disturbare inflazionato, che ormai si chiede sia benedetto non un sofferente ma il biglietto della lotteria.
Il nostro si chiama Dio, si scrive con la l’iniziale "D" in maiuscolo, come lo stesso pronunciare la ingrassa.
Quel poveretto - quei miseri - sono stati abbandonati e dimenticati, che pure nel giornalistico si parla del loro, di dio...con la prima lettera minuscola, come quelli, che il dramma si guarda con il binocolo al contrario, perché la notizia non tira, non urla, non vende, non interessa, non monetizza, oppure è come goccia nel deserto, che svapora appena cade.
Io sono a guardare, con la mia vergogna, un senso frustrante d’impotenza, la rabbia d’essere troppo piccolo per gridare, pochi ad ascoltare e insignificante nell’altezza, ma ci provo, che mi basterebbe avviare un motore più potente e una macchina più possente e un rombo più udibile.
E la mia preghiera per quello in posa e i tanti a friggere su quella terra bollente, dimenticata da...dio.
E dagli uomini.
Che anche i morti di un dio minore hanno un padre.
Ricordiamo, che la memoria è anche per quegli ignoti, morti ma figli di dio, anche se uno minore.


Io, secondo me...12.02.2008

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